Cinque punte ha una stella. E cinque dita ha il pugno che si stringe per denunciare un'ingiustizia, l’ira.
Anche loro sono cinque.
I cinque.
Però nel momento di doversi sedere sul banco degli imputati, accusati dal nemico, hanno deciso di essere una sola cosa: Cuba.



sabato 23 maggio 2015

ANTONIO GUERRERO, UNO DEI CINQUE, LIBERO di Luciano del Sette


dal sito "Nostramerica..." riprendiamo l'ottimo articolo di Luciano del Sette del 23 maggio 2015 su Antonio Guerrero (vedi)
Chiede qual­che foglio di carta bianca e una penna. Si siede, ti guarda, sor­ride. Ha un sor­riso che cam­bia, Anto­nio Rodri­guez Guer­rero. Mobile come la mano che guida la penna su un foglio, o insieme all’altra resta sospesa nell’aria per fer­mare un momento del rac­conto. Mobile come gli occhi che sca­val­cano il vetro sot­tile delle lenti, si fis­sano nei tuoi, si assen­tano per cer­care ricordi. Fa da con­tra­sto la voce, bassa e fluente, colonna sonora di una tran­quil­lità che ti rie­sce dif­fi­cile cre­dere. Per­ché Anto­nio Guer­rero Rodri­guez è uscito da un car­cere degli Stati Uniti appena cin­que mesi fa, il 17 dicem­bre 2014, dopo sedici anni e ses­san­ta­cin­que giorni. La gra­zia fir­mata da Barak Obama ha can­cel­lato una con­danna all’ergastolo, poi ridotta in appello a ven­tun anni e dieci mesi. Accusa: atti­vità di spio­nag­gio e cospi­ra­zione. Anto­nio era uno dei Cinco Pre­sos, i cin­que pri­gio­nieri cubani. le cui vicende ave­vano fatto nascere una cam­pa­gna inter­na­zio­nale di soli­da­rietà. Un pro­cesso in stile Guerra Fredda, prove a favore secre­tate, prove con­tro messe in campo da spie di regime, celle di iso­la­mento, ver­detto e deten­zione duris­simi. Una set­ti­mana fa, Guer­rero è stato ospite a Vene­zia della nona edi­zione del festi­val inter­na­zio­nale di poe­sia «La pala­bra en el mundo». Pre­senza fisica, dopo che, nelle edi­zioni pre­ce­denti, altri ave­vano letto le sue strofe spe­dite dalla cella.

Gli ave­vamo chie­sto di incon­trarlo, aveva accet­tato senza porre con­di­zioni. E così ci siamo tro­vati davanti quel sor­riso, quelle mani, que­gli occhi, quella voce, a rac­con­tarci una sto­ria i cui capi­toli sono tes­suti dalla fede poli­tica e dall’amore per Cuba. Mai abdi­cati di fronte alle manette, alle minacce, ai ten­ta­tivi di blan­dire, alla soli­tu­dine dispe­rante dell’attesa, alla per­dita della libertà. Una sto­ria che ha tro­vato nella metrica dei versi il brac­cio soste­ni­tore di una lunga, lun­ghis­sima resi­stenza. Il 16 otto­bre 1958, a Miami, da geni­tori cubani, nasce Anto­nio Guer­rero Rodri­guez. Il resto della fami­glia vive sull’isola, e lì, per le feste di fine anno, tutti sono soliti riu­nirsi. Suc­cede anche in occa­sione del capo­danno 1959. Ma arriva il primo gen­naio, Fidel entra all’Avana, e il volo di ritorno a Miami regi­stra l’assenza di tre pas­seg­geri che di cognome fanno Rodri­guez. Sco­laro alle supe­riori, Guer­rero comin­cia ad acca­rez­zare il sogno di diven­tare inge­gnere aero­nau­tico civile. Nes­suna vel­leità poe­tica? «Un mio com­pa­gno di scuola amava la poe­sia e mi con­vinse a par­te­ci­pare a un con­corso. Pas­sai la prima sele­zione, ma non andai oltre». Le ottime pagelle sco­la­sti­che danno invece ad Anto­nio l’opportunità di fre­quen­tare inge­gne­ria nell’allora Unione Sovie­tica, all’università di Kiev. Ter­mi­nati gli studi, ini­zia il lavoro presso l’aeroporto di San­tiago. Una vita nor­male, per quanto possa esserlo in una terra che paga con infi­nite dif­fi­coltà eco­no­mi­che il prezzo della rivo­lu­zione; che ogni giorno deve lot­tare con­tro l’embargo e i ten­ta­tivi ame­ri­cani di annien­tare la minu­scola roc­ca­forte comu­ni­sta sul mare dei Tropici.
Nel ’90, Cuba è alle corde. Il cosid­detto Periodo Espe­cial si tra­duce nella man­canza quasi totale di mezzi di sus­si­stenza, dalla for­ni­tura rego­lare di elet­tri­cità alla ben­zina. Unica fonte di soprav­vi­venza sem­bra garan­tirla il turi­smo, in ascesa gra­zie agli accordi con impor­tanti ope­ra­tori inter­na­zio­nali. Ed è pro­prio il turi­smo che i gruppi ter­ro­ri­stici ali­men­tati dai cubani di Miami, anti­co­mu­ni­sti visce­rali, vogliono col­pire. Pre­cisa Guer­rero «Si può dire che que­sti gruppi si for­ma­rono il giorno dopo la Rivo­lu­zione, e si misero subito al lavoro. Negli anni ’90 ven­nero com­messi decine e decine di atten­tati, non pochi si lascia­rono die­tro dei morti. Fare il turi­sta a Cuba doveva diven­tare molto, molto peri­co­loso». Il cre­scendo è impres­sio­nante: 7 otto­bre ’92, un’imbarcazione armata attacca l’Hotel Mella Vara­dero e poi si rifu­gia in acque sta­tu­ni­tensi; 11 marzo ’94, un gruppo di ter­ro­ri­sti pro­ve­niente da Miami spara con­tro l’Hotel Gui­tar di Cayo Coco; 6 otto­bre ’94, spari con­tro lo stesso hotel; 11 novem­bre ’94, arre­sto di quat­tro ter­ro­ri­sti a Vara­dero, loro obiet­tivo le strut­ture turi­sti­che; 21 otto­bre ’96, un aereo del Dipar­ti­mento di Stato ame­ri­cano sparge, a pochi chi­lo­me­tri da Vara­dero, una sostanza con­te­nente un agente bat­te­rico, il Thrip Palmi Karny, in grado di distrug­gere le col­ti­va­zioni; da aprile a set­tem­bre ’97, bombe all’Avana negli hotel Melia Cohiba, Capri, Nacio­nal, Mira­mar, Tri­ton, Copa­ca­bana (qui muore l’italiano Fabio Di Celmo) e alla Bode­guita del Medio; ancora bombe ad ago­sto dello stesso anno nell’hotel Sol Pal­ma­res di Vara­dero, e bombe ine­splose in un mini­bus turi­stico e in un chio­sco dell’aeroporto dell’Avana. Sem­pre nel ’97, arre­sto del ter­ro­ri­sta sal­va­do­re­gno Cruz Leon, il quale con­fessa di essere autore di vari atten­tati e di aver rice­vuto 4500 dol­lari per ogni ordi­gno piaz­zato; iden­tica cosa dichiara, un anno dopo, in un’intervista al New York Times, un altro ter­ro­ri­sta, Posada Caril­les, aggiun­gendo di essere stato finan­ziato dalla FNCA, la Fon­da­zione Nazio­nale Cubano Ame­ri­cana con sede a Miami nello stesso edi­fi­cio della FHCR, Fon­da­zione per i Diritti Umani in Cuba. Per fer­mare più in fretta pos­si­bile que­sta lunga scia di san­gue e insieme l’emorragia del turi­smo, il governo aveva già deciso tempo prima di sma­sche­rare i man­danti e denun­ciarli al mondo.
C’era biso­gno di un pic­colo gruppo che fosse in grado di met­tere insieme una docu­men­ta­zione inop­pu­gna­bile. Ven­gono inter­pel­lati Fer­nando Gon­za­lèz, René Gon­zá­lez, Gerardo Her­nán­dez, Ramón Labañino e Anto­nio Guer­rero Rodri­guez. Pre­cisa Anto­nio «Era­vamo cin­que per­sone nomali, non ave­vamo una pre­pa­ra­zione spe­ciale, né veniva richie­sta. Accet­tammo e ini­ziammo il nostro lavoro, ven­ti­cin­que­mila pagine in otto anni, a testi­mo­niare il nostro agire allo sco­perto e le ragioni per le quali era­vamo lì: disar­mati, senza alcun piano sov­ver­sivo. Non abbiamo mai sfio­rato nes­suno (ride, ndr) nep­pure con un petalo di rosa». Lui ha pas­sa­porto ame­ri­cano come René, gli altri entrano a Miami con pas­sa­porti falsi. Ma, riba­di­sce Anto­nio «Tutti agi­vamo alla luce del sole, non era­vamo e non ci com­por­ta­vamo da 007. Il nostro com­pito con­si­steva nel tro­vare e man­dare prove e mate­riale in grado di costrin­gere gli ame­ri­cani a coo­pe­rare per distrug­gere la rete del ter­ro­ri­smo». Nel set­tem­bre del 1998, basan­dosi sulla forza di quanto i Cin­que hanno rac­colto, le auto­rità di Cuba chie­dono una riu­nione con il Dipar­ti­mento di Stato e l’FBI, durante la quale denun­ciano il ruolo delle asso­cia­zioni e delle comu­nità anticastriste.
Il 12 set­tem­bre, i Cin­que ven­gono arre­stati nelle loro abi­ta­zioni «Gli agenti fecero irru­zione armata in casa mia, a Key West, mi amma­net­ta­rono, mi cari­ca­rono su un’auto e mi por­ta­rono nella sede locale dell’FBI. Tra di loro rico­nobbi George, uno che incon­travo abba­stanza spesso e si era offerto alla mia com­pa­gna di allora come mas­sag­gia­tore. Quando gli pas­sai davanti, mi rivolsi a lui chia­man­dolo George. Fece finta di cascare dalle nuvole, disse di non chia­marsi così. Il che era asso­lu­ta­mente vero. Dopo il primo inter­ro­ga­to­rio mi tra­sfe­ri­rono all’FBI di Miami. Ini­zia­rono ras­si­cu­ran­domi: se avessi col­la­bo­rato non ci sareb­bero stati pro­blemi, sarei tor­nato alla vita di tutti i giorni e alla spiag­gia che mi pia­ceva tanto. Risposi di non aver nulla da dire o da nascon­dere, di non capire per­ché mi aves­sero amma­net­tato e por­tato lì. Se ne anda­rono. Poco dopo venni avviato al Cen­tro Fede­rale di Deten­zione e messo in cella di iso­la­mento». The hole, il buco, sarà il mondo dei Cin­que per dicias­sette mesi invece dei due al mas­simo pre­vi­sti dalla legge «Suc­ce­de­ranno molti fatti durante l’istruttoria, ma uno è par­ti­co­lar­mente indi­ca­tivo dell’atteggiamento della giu­sti­zia nei nostri con­fronti. La docu­men­ta­zione che ave­vamo pro­dotto venne secre­tata e resa di dif­fi­ci­lis­simo accesso agli avvo­cati difen­sori. Occor­re­vano per­messi da chie­dere con tre giorni d’anticipo e non sem­pre accor­dati. Dopo il primo mese di car­cere duro riu­scimmo a otte­nere di par­lare tra noi, ma solo a cop­pie. Respi­ra­vamo un’atmosfera di osti­lità e chie­demmo che il pro­cesso si svol­gesse fuori da Miami. Ci fu negato» Il 27 novem­bre del 2000 viene sele­zio­nata la giu­ria e il 6 dicem­bre si comin­cia. In un primo momento, tra i capi di impu­ta­zione non com­pare l’accusa di omi­ci­dio di primo grado nei con­fronti di Her­nán­dez per aver abbat­tuto, nel 1996, due tra i tanti aerei che vio­la­vano di fre­quente gli spazi cubani. Una mon­ta­tura messa su in fretta e furia «Il ver­detto di con­danna arrivò otto mesi dopo l’inizio del pro­cesso, durante il quale non erano emerse prove con­crete, né di spio­nag­gio, né di omi­ci­dio. Se i giu­rati non fos­sero stati di Miami, ci avreb­bero giu­di­cati inno­centi. Ma vin­cemmo comun­que, per­ché ave­vamo por­tato a cono­scenza dell’opinione pub­blica le atti­vità ter­ro­ri­sti­che di gruppi e orga­niz­za­zioni con­tro Cuba, facendo nomi e cognomi di chi li finan­ziava e li gui­dava».
Hai scritto che nel mag­gio del 1999 la poe­sia è venuta a sal­varti, a sal­varvi. Puoi spie­garlo? Un foglio bianco davanti ad Anto­nio si è riem­pito di date, mappe del car­cere abboz­zate, nomi. Ci aggiunge il dise­gno della cella di iso­la­mento: un letto, una sedia, un tavo­lino, un bagno angu­sto. Ventiquattr’ore al giorno da solo, lì e sol­tanto lì. Per dicias­sette mesi «Un giorno ini­ziai a pen­sare un poema. Dico ‘pen­sare’ per­ché, all’inizio, non avevo nep­pure una matita. Man­davo i versi a memo­ria. Poi la matita me la die­dero, e scrissi un altro poema, un altro ancora e ancora un altro… La poe­sia si era tra­sfor­mata in un mec­ca­ni­smo che mi aiu­tava a far scor­rere il tempo, a dimen­ti­care dove mi tro­vavo. Sovente reci­tavo i versi per gli altri car­ce­rati. Un amico venne a tro­varmi, por­tan­domi un libro che con­te­neva 365 poe­sie di autori diversi, una per ogni giorno dell’anno. Decisi che avrei fatto la stessa cosa, ma le poe­sie le avrei scritte tutte io, dalla mat­tina alla sera». Cin­que pri­gio­nieri poli­tici, di cui uno poeta. Come vi vede­vano gli altri dete­nuti, cosa pen­sa­vano di voi? «Al di là del tipo di dete­nuto che sei, la chiave di accesso alla pri­gione è il rispetto della gente con cui vivi ogni giorno. Noi il rispetto ce lo siamo gua­da­gnato. Per molti anni ho fatto il mae­stro e ho cer­cato di tra­smet­tere ad altri la mia pas­sione per la pit­tura. Con umiltà, per­ché essere arro­ganti, sen­tirsi supe­riori, è un errore grave. E ancor più grave è fare la spia, accu­sare, par­lare alle spalle. Chi ti rispetta in car­cere, sa anche pro­teg­gerti. Dalle lotte fra gang, ad esem­pio, avvi­san­doti che quel giorno è meglio non andare in mensa, oppure in un deter­mi­nato luogo. Verso di noi nac­quero una certa ammi­ra­zione e una forma di soli­da­rietà quando si venne a sapere che stava nascendo un movi­mento in nostro favore».
Che cosa hai pro­vato quando ti hanno detto che sare­sti uscito dopo sedici anni di lon­ta­nanza dal mondo? Il tono fermo e pacato di Anto­nio si arrende alla com­mo­zione «Il 15 dicem­bre del 2014, alle cin­que e mezza del mat­tino, un’infermiera pic­chia sulle sbarre e mi dice ‘Tra un’ora devi essere al reparto dimis­sione con tutte le tue cose’. Mi alzo dal letto e chiedo al mio com­pa­gno di cella, un por­to­ri­cano, di aiu­tarmi. Lui usciva a gen­naio, gli dico ridendo ‘Hai visto? Me ne vado prima io’». Fuori, final­mente di nuovo in strada, poi al Cen­tro medico del car­cere. Il giorno seguente Anto­nio viene fatto entrare in una grande stanza «Non mi restava che fir­mare la gra­zia accor­data da Obama. Ma Gerardo dov’era? Senza di lui non me ne sarei andato. Poi lo vedo che abbrac­cia alcune per­sone. Allora firmo. Il 17, alle 8 e 10, siamo par­titi per l’Avana». A Cuba tu sei con­si­de­rato un eroe nazio­nale. Si sente tale, Anto­nio Guer­rero Rodri­guez? «Il nostro eroe nazio­nale si chiama José Marti. Un mae­stro di vita, se vuoi capire che cos’è la vita, se vuoi capire qual­cosa di te stesso e qual è la tua fun­zione nel mondo. Lui diceva ‘L’uomo è quello che non si vede’. Que­sto è l’uomo che sono. Quello che non si vede, e anche quello che si vede. Ma io sono innan­zi­tutto le mie idee, i miei pen­sieri, la mia coscienza, la mia visione del mondo, il mio modo di com­por­tarmi come amico di me stesso. Quindi sono uguale a tutti. Gli dei appar­ten­gono alla mito­lo­gia. Noi siamo quello che riu­sciamo a inter­pre­tare del nostro pen­siero e a rea­liz­zare… Non mi ritengo un poeta, l’ho fatto per resi­stere e la gente ha capito che è stata una cosa buona. Adesso posso essere un esem­pio. E domani? Cam­mino cer­cando di non per­dere la bus­sola. Il mio com­pito è andare avanti». ‘Qui mi vedrai tanto solo/ die­tro di me l’ombra/ non c’è sole, né anniversario/… Io non provo rancore/il mio canto non si stanca/io grido amore e ven­gono volando le colombe’. Le mani di Anto­nio Guer­rero Rodri­guez si fer­mano. Gli occhi, invece, con­ti­nuano a cer­care un futuro impri­gio­nato eppure mai arreso, mai scon­fitto. Il futuro di un uomo sem­pre capace di essere quello che non si vede.
(Gra­zie a Giu­liana Grando, Fran­ce­sca Zanutto e Luigi Bar­del­lino per l’aiuto. A Mat­tia per la tra­du­zione in diretta)
(Alias, 23.5.2015)

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